Aborto in Italia (Legge 194 del 1978)- Per il Consiglio Europeo l’accesso ai servizi di interruzione di gravidanza è ancora troppo complicato.

imagesSi intitola “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, la Legge n.194 del 1978, volta a garantire il diritto alla procreazione  cosciente e responsabile, attraverso un sistema coordinato Stato-regioni-enti locali, finalizzato alla promozione ed allo sviluppo di servizi socio-sanitari utili anche ad evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.

Punti di riferimento fondamentali per interrompere volontariamente una gravidanza, lo ricordiamo, in Italia sono (art. 4 L.194/1978):

  • I consultori familiari (istituiti con la Legge 405/1975)
  • Le strutture socio-sanitarie a ciò abilitate dalle regioni
  • Un medico di fiducia

Ebbene, proprio in merito all’accesso ai servizi di interruzione della gravidanza, il Consiglio d’Europa, pronunciandosi su un ricorso presentato dalla Cgil, ha sostenuto che Le donne in Italia continuano a incontrare «notevoli difficoltà» nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull’aborto. L’Italia viola quindi il loro diritto alla salute.

Ma non solo. Nel nostro Paese, sempre secondo il Consiglio d’Europa  c’è discriminazione tra  medici e personale medico che non hanno optato per l’obiezione di coscienza in materia di aborto. Questi sanitari sarebbero vittime di «diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti».

Secondo il  Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa  “in alcuni casi, considerata l’urgenza delle procedure richieste ( l’interruzione volontaria di gravidanza deve essere praticata entro i primi novanta giorni, fatta eccezione per quanto previsto dall’art.6 della legge 194 n.d.r.), le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare in altre strutture”. Ancora molte donne quindi scelgono di mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno o il controllo delle competenti autorità sanitarie. E invece sappiamo che i servizi di aborto sono un loro diritto in base alla legge 194/78, che non dovrebbe comunque mai essere negato o ostacolato attraverso atteggiamenti “dissuasivi” tendenti ad indirizzare queste donne presso strutture private non accreditate.

Secondo il Comitato, questo tipo di situazioni possono «comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne interessate, il che è contrario al diritto alla protezione della salute».

 E, mentre il Ministro Lorenzin si dice stupita, sostenendo che forse i numeri risalgono al 2013 e, da allora, la situazione è sostanzialmente mutata, Filomena Gallo e Mirella Parachini, segretario e membro di direzione dell’associazione Luca Coscioni – ricordano che dal 15 gennaio scorso il Governo ha perfino inasprito le multe per le donne che, non riuscendo a interrompere la gravidanza per mancanza di medici non obiettori, sono costrette a rivolgersi a strutture non accreditate o a medici non autorizzati.

Il dilagare dell’obiezione di coscienza è, dunque, un fattore che rischia  di incentivare il ritorno dell’aborto clandestino.  
Quanto ai numeri, sono state 97.535 le interruzioni nel 2014, con un decremento del 5,1% rispetto al dato definitivo del 2013 (105.760 casi). Un aborto su tre riguarda una donna straniera, ovvero il 34%, con un tasso di abortività del 19 per 1000, pari a una tendenza tre volte maggiore di quelle italiane. Fra le minorenni il tasso di abortività è del 4,1 per 1000, uno dei valori più bassi rispetto agli altri paesi occidentali. Resta costante, ma è la più bassa a livello internazionale, la percentuale di episodi ripetuti: il 26,8% delle interruzioni di gravidanza viene effettuata da donne con una precedente esperienza.

Secondo l’Associazione medici italiani contraccezione e aborto (A.M.I.C.A) la carriera dei non obiettori è penalizzata e quando si lavora in una struttura in cui gran parte dei medici sono obiettori, ci si trova a doversi occupare praticamente solo di interruzioni di gravidanza, mentre i colleghi si occupano di tutti gli altri aspetti della salute della donna. Per non considerare poi il fatto che chi lavora in questo campo è anche esposto a maggiori rischi professionali, perché maggiori sono le complicazioni negli interventi su donne in attesa da diverse settimane.

In Italia oggi più del 50% degli anestesisti fa obiezione. Per quanto riguarda i medici, la situazione è invece  a macchia di leopardo. In alcune ragioni è possibile abortire in pochissimi centri, in alcune province del Lazio è impossibile e per questo tante donne si spostano a Roma. Queste forti disparità causano migrazioni, in alcuni casi anche fuori dall’Italia».

Pensare che in moltissimi Stati europei e non, l’obiezione non è vista come una scelta positiva: si chiama “Refusal of care”, rifiuto di prestare le cure mediche, di occuparsi della salute delle donne.

Andrebbe fatto davvero di più, specialmente se consideriamo che l’aborto è sempre un’esperienza traumatica per chi la vive, anche laddove è frutto di una “scelta” della gestante, perché in numerosi casi, più che di valutazioni consapevoli, sarebbe corretto parlare di decisioni obbligate da uno Stato che non aiuta le donne a superare le cause che le inducono all’interruzione della gravidanza.

A cura dell’avv. Marianna Giungati

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